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RITORNO A BRETTON WOODS *
di Stefano Firpo e Renato Maino 02.10.2008
Il piano Paulson punta a risolvere i problemi di liquidità del solo settore finanziario statunitense. Anche se nel resto del mondo il settore soffre dei problemi esportati dagli Usa. Ma davvero gli investitori non possono fare altro che affidarsi di nuovo alla locomotiva americana? Si potrebbero invece decidere azioni multilaterali, affidate alle istituzioni nate a Bretton Woods, il primo tentativo di governo dell'economia finanziaria globale. Ancora oggi potrebbero agire in fretta e bene, preparando le basi per la nuova architettura finanziaria internazionale.
Con il piano Paulson, il governo americano si è presentato di fronte al Congresso chiedendo di fatto mano libera per agire con tempestività e profusione di mezzi. Ha anche di fatto “commissariato” la stessa Fed, superando di slancio l’ipotesi di un dualismo Paulson-Bernanke.
Lo “stimulus act”, lanciato solo pochi mesi fa dall'amministrazione Bush per circa 150 miliardi di dollari di riduzioni fiscali, impallidisce al confronto dei 700 miliardi di dollari annunciati, destinati, secondo la gran parte degli osservatori, a crescere fino almeno a 1000. Difficile stimare quanto di questa cifra potrà consistere in creazione di moneta. Altrettanto difficile è dire se sarà sufficiente per chiudere con il passato. Tutto ciò mentre il debito pubblico americano sale dal 60 per cento del Pil al 90 per cento circa, per effetto del consolidamento delle passività di Fannie Mae, Freddy Mac e Aig.
UNA SOLUZIONE AI PROBLEMI DEGLI AMERICANI
La speranza dell’amministrazione Bush era di far assorbire al resto delle economie mondiali la maggior parte delle nuove passività del Tesoro, limitando l’impatto inflazionistico e l’ulteriore aggravamento dei “deficit gemelli”. Il passaggio congressuale nonché i vincoli normativi consentivano tuttavia di intervenire solo a favore del settore finanziario americano. Il pacchetto Paulson dunque, in qualsiasi forma venga approvato dal Congresso, punta a risolvere i problemi di liquidità del settore finanziario residente, problemi che stanno congelando il flusso di credito a sostegno del consumatore americano, trasferendone il conto al Tesoro e al resto del mondo, secondo una miscela tutta da scoprire.
I soldi americani non avranno perciò ricadute sul settore finanziario del resto del mondo, che, peraltro, soffre dei problemi “esportati” dagli Usa. In particolare non verranno meno gli impulsi recessivi legati a una possibile restrizione del credito, come i recentissimi eventi di Fortis, Dexia e Hypo Real Estate lasciano ben capire.
Il consumatore più opulento del mondo vedrebbe ancora una volta tutte le restanti economie correre in soccorso della sua capacità di spesa. D’altronde, il sostegno ai desideri del consumatore americano è stato alla base del disegno di “ownership society” che ha guidato le amministrazioni Bush, condizionando in modo più o meno manifesto gli interventi di politica economica e monetaria attuati dal Tesoro e dalla Fed negli ultimi otto anni. Qualunque sia l’esito della vicenda Paulson, la linea di condotta appare chiara. Sotto la solita minaccia del prendere il “certo”, cioè la ripresa degli acquisti e della competitività americana, per l’“incerto”, l’ampliamento della base delle economie trainanti, il rilancio dell’economia globale avverrebbe, in sostanza, affidando all’eccesso di spesa americana il compito di riequilibrare il surplus di creazione del risparmio mondiale.
E se questa operazione andasse male? Per troppa o troppo poca larghezza di mezzi?
Nel primo caso (il troppo) la spinta inflazionistica sarebbe intensa, forse incontrollabile. Chi pagherebbe? Sicuramente i beni rifugio, tra cui le materie prime, subirebbero incrementi rilevanti di prezzo, esportando impulsi recessivi verso il resto del mondo attraverso la spinta sui costi industriali e l’aumento dei tassi di interesse. La stagflazione sarebbe inevitabile per tutte le economie globalizzate. Il trasferimento di risorse verso i paesi produttori di materie prime porterebbe a una concentrazione eccezionale della ricchezza in poche mani con un mutamento sostanzialmente oligarchico del sistema finanziario internazionale.
Nel secondo caso (il troppo poco) l’economia americana ne sarebbe comunque avvantaggiata in termini relativi, condizionando le politiche di tutti gli altri attori globali in crescita, per prima la Cina, alle prese con gli squilibri esportati dall’economia dominante.
Se si prescinde dagli ultimi eventi, la mossa del governo americano appare acuta, al limite della spregiudicatezza, ma non priva di una forte razionalità di fondo. La subitanea “festa”, così come l’altrettanto repentina caduta, dei mercati sembra aver fatto accettare le proposte dell’amministrazione americana come le uniche possibili, perlomeno le più concrete. È davvero così? Urgenza e gravità delle scelte richiedono di abbandonare altre ipotesi di coordinamento e di governo globale dell’economia? Non vi è altra prospettiva per gli investitori che non affidarsi ancora alla “locomotiva americana”, considerando il suo sistema finanziario come l’unico in grado di reagire con prontezza e coesione di fronte all’urgenza di stabilità ed efficienza finanziaria?
MEGLIO LE SCELTE MULTILATERALI
La risposta di chi scrive è ovviamente in altra direzione. In primo luogo, il tempo guadagnato dalla (inattesa) bocciatura del Congresso avrebbe dovuto essere rapidamente impiegato per agire in un ambiente intrinsecamente multilaterale; urgenza ed esperienza consigliano che le istituzioni disponibili, generate dagli accordi di Bretton Woods, siano ancora preferibili per lo scopo. In secondo luogo, la scelta multilaterale dovrà informare la definizione della nuova architettura finanziaria mondiale, più adatta a governare il futuro post crisi.
Un intervento straordinario appare inevitabile per liberare i bilanci degli operatori dalle poste di più incerta valorizzazione (i “toxic assets”) sul modello di quanto oggi si appresta a fare l’amministrazione americana. Tale azione potrebbe essere affidata all'Fmi, in stretto coordinamento con le banche centrali. In particolare l'Fmi riceverebbe il mandato di “far mercato”, negoziando sul mercato le attività illiquide a prezzi che presentano un adeguato “deep discount” rispetto ai fondamentali, con un’apposita gestione separata. Le risorse sarebbero reperite con creazione di mezzi di pagamento da un lato e collocamento sul mercato di nuove emissioni, ottenute tramite “repackaging” dei titoli così acquisiti, ricalcando il modello operativo dei “Brady Bond”, che a fine anni Ottanta evitarono il collasso del sistema finanziario internazionale esposto verso i paesi emergenti. (1)
L’emissione di “nuova” moneta potrebbe essere infine orientata ad attivare l’economia globale, indirizzandola a favore dei paesi con problemi di equilibrio esterno alimentare, dei grandi progetti qualificanti approvati dalla Banca Mondiale (in particolare nei comparti dell’alimentare, dell’energia e della sostenibilità ambientale) e degli investimenti nelle strozzature di offerta dei paesi meno sviluppati. La domanda mondiale non verrebbe sostenuta solo con una riedizione della “motrice americana”, ma poggerebbe prevalentemente sugli investimenti per il rilancio delle strutture produttive e di offerta. Ciò avrebbe anche un chiaro intento perequativo rispetto allo squilibrio nell’allocazione delle risorse avvenuta negli anni passati. Il necessario riequilibrio della domanda mondiale attraverso il deficit Usa troverebbe una parziale soluzione nella creazione di occasioni di spesa “virtuose” a livello planetario, con una redistribuzione delle opportunità di sviluppo. Infine, le condizioni di liquidità degli attivi degli operatori finanziari internazionali verrebbero ripristinate senza violare il principio di moral hazard, evitando ulteriori tensioni per l’attività di credito e di finanziamento dell’economia reale.
Non vi è da nascondersi che l’azione avrebbe sicuramente portata eccezionale. L’ammontare, a prezzi nominali, delle emissioni “Housing Market-Related” a rischio sono pari a 3250 miliardi di dollari, una cifra ben 10 volte superiore all’intervento di ristrutturazione del debito tramite l’emissione di “Brady Bonds”. Si può stimare che un intervento come quello ipotizzato potrebbe coinvolgere, al netto dei default già avvenuti, non meno di 1700 miliardi di dollari.
Le risorse oggi disponibili presso l’Fmi a fini di governo del sistema finanziario mondiale sono nell’ordine di un decimo. L’intervento, quindi, dovrebbe essere strutturato con il concorso delle maggiori autorità finanziarie mondiali, affidato eventualmente a uno specifico programma.
Quella che viviamo potrebbe essere non l’ultima crisi tradizionale quanto la prima crisi della nuova economia finanziaria globale. I capitali, d’altronde sono ormai multilaterali e ridisegnano il nuovo potere finanziario mondiale. Bretton Woods è stato il primo tentativo di un governo dell’economia finanziaria globale. Quelle istituzioni potrebbero ancora oggi agire in fretta e bene, preparando anche le basi per la nuova architettura finanziaria internazionale. Forse è questo il momento opportuno per cominciare a costruirla, con il caso che diventa necessità e la necessità che, dall’ottimismo della volontà, può venir fatta virtù.
* I due autori fanno capo rispettivamente a Operazioni Strategiche e Progetti Speciali Intesa Sanpaolo spa e a Università L. Bocconi e Direzione Risk Management Intesa Sanpaolo spa.
(1) Una proposta in questa direzione venne già formulata da Luigi Spaventa con un articolo sul FT dell’11 aprile 2008, “How a new Brady Bond could ease the strain”. Il contenuto dell’articolo è ripreso più estesamente in un saggio pubblicato su Cepr Policy Insight No22 dal titolo “Avoiding Disorderly Deleveraging”, rintracciabile sul sito.
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