Corriere della Sera
La crisi è (forse) entrata in una seconda fase. Superato il momento più acuto, i mercati finanziari ricominciano lentamente a funzionare, le banche riescono di nuovo (seppure ancora a fatica) a reperire liquidità, la caduta libera delle Borse si è arrestata. La crisi finanziaria si sta ora spostando verso i Paesi della periferia: l’Fmi è già intervenuto in Ungheria e Ucraina, la Federal Reserve ha aperto linee di credito a favore di Messico e Brasile. Negli Stati Uniti e in Europa la seconda fase della crisi ora colpisce l’economia reale. Il dubbio non è più se vi sarà una recessione, ma quanto durerà e quale livello raggiungerà il tasso di disoccupazione prima di cominciare a scendere. Che fare? La Bce è finora stata più timorosa della Fed e della Bank of England: il livello dei tassi d’interesse europei è tre volte quello degli Stati Uniti, rimane ampio spazio per ridurli.
Ma un taglio dei tassi, sebbene certamente utile, non avrà grandi effetti sull’economia, almeno finché i mercati finanziari non riprenderanno a funzionare normalmente, e ci vorranno molti mesi. Lo strumento da usare è quindi la politica fiscale: tasse e spesa pubblica. Ce lo possiamo permettere con un debito pubblico che rimane il più alto in Europa? E se sì, meglio ridurre le tasse o accelerare gli investimenti pubblici? La risposta alla prima domanda è sì, purché lo strumento che usiamo aumenti rapidamente i consumi e sia limitato nel tempo. Per «rapidamente» intendo già con le tredicesime di dicembre, non la prossima primavera. Se riuscisse davvero ad attenuare la recessione, gli effetti sul rapporto debito-Pil di un intervento fiscale temporaneo potrebbero essere relativamente modesti. Accelerare gli investimenti pubblici in questo momento servirebbe a poco. Tra permessi e preparazione dei cantieri un’opera pubblica impiega mesi, se non anni a partire.
Il primo strumento da usare è un taglio deciso delle tasse sul lavoro. Per due motivi: innanzitutto perché, diversamente dalle spese per investimenti, agisce al tempo stesso sulla domanda (perché aumenta il potere d’acquisto dei salari) e sul costo del lavoro, quindi sull’offerta, se vengono ridotte pro quota sia le tasse pagate dal lavoratore sia gli oneri a carico dell’impresa. In secondo luogo perché immediato, soprattutto se il taglio è inversamente proporzionale al livello dei salari. Ad esempio si dovrebbe azzerare il cuneo fiscale (cioè la differenza fra costo del lavoro per l’impresa e salario netto per il dipendente) per tutti i salari al di sotto di un certo livello, cioè per le famiglie che oggi sono più in difficoltà quindi è più probabile che spendano il maggior reddito di cui disporrebbero.
Per avere maggiore effetto sui consumi, il taglio delle tasse sul lavoro dovrebbe essere permanente. Temo non possiamo permettercelo. Un taglio limitato nel tempo avrebbe il vantaggio di indurre lavoratori e imprese a sfruttare il momento particolarmente favorevole attenuando la riduzione delle ore lavorate. Altrettanto rapidi sarebbero gli effetti di un provvedimento che estendesse i sussidi di disoccupazione a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro contratto, a tempo determinato o indeterminato. A differenza di un taglio delle tasse sul lavoro, l’estensione dei sussidi non agisce sull’offerta ma solo sulla domanda, ma almeno agisce rapidamente.
16 novembre 2008
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