Stato e mercato oltre la crisi - Corriere della Sera
USA, EUROPA E ITALIA
Stato e mercato oltre la crisi
di MARIO MONTIMolti lettori del Corriere, ritengo, si identificano in una visione che considera positivamente l'economia di mercato, anche come base di una società pluralista; riconosce la leadership esercitata dagli Stati Uniti nel promuoverne la diffusione; apprezza l'integrazione europea anche come àncora dell'Italia ai princìpi e alle regole dell' economia di mercato al di là del succedersi dei governi. I recenti riflussi contro la globalizzazione, la crisi finanziaria dirompente, gli interventi pubblici di salvataggio impongono ripensamenti profondi. La riflessione è in corso in tutto il mondo. Richiederà tempo e umiltà. Sui fronti contrapposti del dibattito, non mancano coloro che già emettono posizioni nette e taglienti, ma si ha a volte l'impressione che si tratti più che altro di «regolamenti di conti», accademici o politici. Anche il Corriere ha avviato, con una pluralità di voci come è nella sua tradizione, uno sforzo per comprendere e spiegare questo violento terremoto finanziario e le sue ripercussioni sistemiche.
Per parte mia, vorrei oggi chiedermi che conseguenze potrà avere il terremoto sulla tenuta della «nostra » visione, richiamata all'inizio. Guarderò prima agli Stati Uniti, poi all'Europa e infine all'Italia. Gli Stati Uniti mi paiono, lo dico con rammarico, molto indeboliti nella loro opera storica di promozione dell'economia di mercato. I salvataggi operati dalle autorità americane danno sollievo ai mercati finanziari, ma offrono agli oppositori dell'economia di mercato, in Europa e altrove, un'inaudita occasione per invocare l'esempio americano: diranno che perfino il portabandiera dell'economia di mercato ne ha violati i principi fondamentali. Se anche si ammette che in qualche misura i salvataggi fossero inevitabili, non si possono non valutare negativamente le politiche che vi hanno condotto: l'espansione monetaria esuberante dell'era di Alan Greenspan, la disattenzione agli squilibri di finanza pubblica, l'assetto obsoleto delle autorità di vigilanza, le connivenze tra politica e finanza che hanno reso intoccabile l'esplosivo sistema delle garanzie pubbliche agli istituti di finanziamento immobiliare.
Se la cattiva governance dell'economia americana ha recato un grave vulnus all'immagine dell'economia di mercato, non dobbiamo però dimenticare che gli Stati Uniti hanno un grande punto di forza nella flessibilità ed efficienza dei mercati dei prodotti e del lavoro, oltre che nella capacità di ricerca e innovazione. L'Unione Europea non potrà essere indenne dalle tendenze recessive generate dalla crisi finanziaria nata in America. Ma ha costruito nel tempo una governance dell'economia più moderna e più solida. La politica della Banca centrale europea è generalmente giudicata migliore di quella del Federal Reserve System. Nell'esercizio dei suoi poteri a presidio delle regole di mercato la Commissione europea non è «catturata » dai poteri economico- finanziari come è avvenuto spesso negli Stati Uniti: garanzie come quelle dimostratesi perniciose a Washington esistevano in Germania ma Bruxelles le ha eliminate, i salvataggi non sono impossibili ma devono avvenire rispettando severe condizioni e con trasparenza. Anche in Europa, tuttavia, la nuova stagione porterà a tensioni e ripensamenti.
Tensioni, perché alcuni obietteranno a Bruxelles che l'Unione europea è rimasta l'unica isola in cui l'economia di mercato viene fatta rispettare con rigore. Ripensamenti, perché si potrà ritenere necessario, per fronteggiare la crisi economica, un maggiore intervento pubblico. Se questo si rivelerà necessario, è auspicabile che si tratti di interventi pubblici comunitari, come nelle recenti proposte del Ministro Tremonti, e non di maglie più larghe per interventi pubblici nazionali che possano frammentare il mercato unico faticosamente costruito. Infine, l'Italia. Nell'Italia del dopoguerra, la prevalenza della cultura cattolica e di quella marxista, la scarsa presa della cultura liberale avevano fatto sì che il modello dell'economia di mercato, con regole adeguate, si affermasse solo tra gli anni ’80 e ’90. Affermazione che avvenne non per convinzione endogena, come era accaduto 30 anni prima in Germania, ma come evoluzione resa necessaria dalla crescente concorrenza internazionale e soprattutto dall'avvento dell'unione economica e monetaria europea. Il colpo ora inferto al prestigio dell'economia di mercato proprio dagli Stati Uniti, specie se fosse seguìto da un'inversione di marcia della globalizzazione e da un indebolimento del quadro istituzionale europeo, ridarebbe fiato insperato alle molte voci—di sinistra, di centro e di destra—che in Italia avevano dovuto inchinarsi alle ragioni del mercato per necessità.
Sarà come se, di colpo, l'onere della prova si fosse ribaltato. Il movimento del pendolo si è invertito. Quando stava per iniziare la fase che forse oggi si conclude, all'indomani della vittoria elettorale di Margaret Thatcher, da queste colonne invitavo sia i fautori del mercato sia i sostenitori dell'intervento pubblico a non lasciarsi guidare né dalla superficialità di una moda, né da una poco appropriata contrapposizione ideologica («Più mercato o più Stato», Corriere, 11 giugno 1979). Molto sarebbe dipeso, aggiungevo, da come il mercato o lo Stato sarebbero stati messi in grado di svolgere, in concreto, i compiti a essi assegnati. Negli anni e decenni successivi, dal Corriere sono state lanciate o sostenute specifiche proposte—spesso accolte dai governi e dalle autorità monetarie—miranti a introdurre da un lato liberalizzazioni, dall'altro strumenti adeguati di disciplina pubblica sui mercati liberalizzati. Mi permetto di ripetere ora lo stesso invito, alle forze politiche di governo e di opposizione e ai protagonisti della vita economica. Può darsi chemaggiori interventi pubblici, anche a livello nazionale, si dimostrino necessari.
Ma, nella ricerca di nuove configurazioni nell'economia sociale di mercato, sarebbe pericoloso lasciarsi guidare semplicemente dall'insofferenza verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato. Soprattutto, converrà tenere ben presenti tre considerazioni. In Italia, anche per il ritardato avvicinamento alla cultura del mercato, vi sono ambiti in cui il quantum di «mercato» è ancora insufficiente: o perché non è ancora stato introdotto mentre sarebbe opportuno farlo, oppure perché mercato vi è, ma insufficientemente concorrenziale o non adeguatamente vigilato. Nei confronti internazionali l'Italia è di solito tra i Paesi i cui mercati — per modalità di regolamentazione, funzionalità ed efficienza -—sono considerati ampiamente perfettibili. Nel valutare l'opportunità di un ruolo maggiore per il «pubblico», sarà necessario sostenere gli sforzi, che sono in corso, per accrescere l'impegno e l'efficienza nelle pubbliche amministrazioni ma senza dimenticare che, tuttora, la funzionalità che le caratterizza non brilla, nei confronti internazionali, per capacità di contribuire alla crescita e alla competitività del paese.
E andrà tenuto presente che «pubblico» non deve significare discrezionale e arbitrario. Sarebbe questo il modo migliore per far cadere ulteriormente l'attrattività dell'Italia come luogo di investimento da parte delle imprese internazionali. Soprattutto, è essenziale evitare che un maggiore «volontarismo» dei pubblici poteri, in sé lodevole, si traduca in interventi tali da creare una confusione dei ruoli tra Stato e mercato, tra politica e imprese. Fu proprio tale confusione di ruoli, soprattutto negli anni ’70 e ’80, a ledere il potenziale di crescita dell'economia italiana, a sprofondarla negli squilibri finanziari, a mettere in dubbio la sua capacità di far parte pienamente dell'Europa.
21 settembre 2008
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