mercoledì 25 febbraio 2009

LA DISCARICA CHE SI CHIAMA BAD BANK di Francesco Vella 03.02.2009

La Voce.it - Articoli

Torna di moda l'idea originaria del piano Paulson: far acquistare dallo Stato i titoli tossici detenuti dalle banche. Senz'altro può aiutare il sistema bancario a ripulire ulteriormente i bilanci e a ritornare più rapidamente alla normalità. Ma la realtà dei titoli tossici è molto complessa ed è evidente il pericolo di attribuire al pubblico compratore una enorme discrezionalità, con effetti distorsivi sui meccanismi di trasparenza dei salvataggi. Servono criteri chiari per definire bene i confini tra Stato proprietario e Stato regolatore.

Anche le crisi hanno le loro mode. Quando l’allora ministro del Tesoro americano Paulson presentò il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari l’idea era quella di comprare dalle banche i titoli “tossici” in modo che queste, liberate dalla zavorra, potessero ricominciare a fare credito o almeno smetterla di guardarsi l’un l’altra con enorme diffidenza e riportare a una situazione di normalità il mercato interbancario. Il piano, al centro di feroci polemiche, prese, però, una strada completamente diversa adattandosi all’ispirazione dei cugini inglesi, che invece avevano scelto di comprarsi non i titoli, ma direttamente le azioni delle banche. E in effetti la moda “Gordon Brown” ha avuto indubbio successo, cambiando completamente gli assetti del sistema bancario, ora saldamente ancorato alla mano pubblica.
Probabilmente se Paulson fosse ancora ministro potrebbe togliersi più di un sassolino dalle scarpe perché la sua idea, allora tanto criticata e bistrattata, è improvvisamente tornata al centro dell’attenzione con il nuovo marchio bad bank.

SALVATAGGI E PRESTITI

Il ritorno di fiamma si deve anche al fatto che le speranze riposte nelle massicce iniezioni di capitale fresco nelle banche sono andate in parte deluse, ma più che speranze erano illusioni. La ricapitalizzatone pubblica non può mettere immediatamente il turbo ai prestiti alle imprese, ma serve alle banche per ritrovare il loro equilibrio e tornare al loro antico mestiere, il cui abbandono non a caso è all’origine della crisi dei subprime e di tutte le nostre attuali sofferenze: valutare il merito di credito. Ed è inevitabile che, in un periodo di grande fragilità dei mercati e degli intermediari, i criteri di selezione dei prenditori siano più severi. Questa è la cruda verità che i politici fanno fatica a trasmettere ai contribuenti alquanto arrabbiati per il fiume di denaro pubblico destinato alle banche. Per salvare il sistema, si devono certo introdurre adeguati strumenti di governance, vincoli prudenziali e severe regole a presidio della correttezza dell’attività creditizia, ma non si può pretendere di imporre una sorta di “obbligo al credito”, altrimenti si rischia, fra qualche anno, di ritrovarci tutti quanti a dire che la lezione della crisi del 2008 non è servita a niente.
La bad bank sicuramente può aiutare le banche a ripulire ulteriormente i bilanci e quindi a ritrovare più rapidamente la strada per un ritorno alla normalità, ma anche in questo caso occorre tenere i piedi per terra ed evitare facili e illusori messaggi nei confronti di chi (ancora i poveri taxpayers) deve tirare fuori i soldi.

I PERICOLI DELLA BAD BANK

Già la prima versione del piano Paulson aveva incontrato molti ostacoli. Non è ben chiaro cosa la bad bank debba comprare, la realtà dei titoli tossici è infatti molto complessa e non facilmente definibile, e soprattutto non è affatto chiaro a quanto debba comprare: la valutazione dei titoli tossici è un autentico puzzle che finora anche i più fervidi sostenitori di questa ipotesi non sono riusciti a comporre. In questo regime di incertezza è evidente il pericolo di attribuire al pubblico compratore una enorme discrezionalità con effetti distorsivi sui necessari meccanismi di trasparenza dei salvataggi, e non è un caso che le prime verifiche parlamentari sull’esecuzione del piano statunitense Tarp abbiano messo il dito nella piaga dicendo a chiare lettere che il Department of Treasury non può utilizzare i soldi dei contribuenti a suo piacimento. Tutti adesso seguono con ansia le scelte del nuovo ministro Geithnerper il rafforzamento del piano, pochi si sono accorti del fatto che il suo primo impegno è garantire quella trasparenza e accountability che ancora manca e che sta suscitando non pochi e giustificati malumori. (1)
C’è poi l’obiezione “etica” di fondo, ripresa da un recente intervento di Luigi Zingales: perché il già bastonato taxpayer deve nuovamente metter mano al portafoglio facendo un favore agli azionisti delle banche? (2) Ed è obiezione sensata, anche perché la collettività non ha niente da guadagnare da una gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico, che potrà essere certo recuperato, ma non si sa come e in quali tempi.
Zingales propone che siano le banche stesse a farsi la loro bad bank, ma anche in questo caso sarebbe comunque necessaria una attenta disciplina su cosa si possa mettere nella spazzatura e con quali metodi. Inoltre, una simile operazione, visto che i titoli tossici sono ormai dappertutto, per essere efficace dovrebbe coinvolgere tutti i mercati, e quindi presupporre un coordinamento internazionale difficilmente attuabile in tempi brevi.

I VESTITI DELLO STATO

Insomma, la bad bank è un terreno sul quale avventurarsi con attenzione e prudenza e comunque poco adatto ai messaggi a effetto tanto cari, in questo periodo, ai politici. Piuttosto, la politica dovrebbe occuparsi di risolvere il vero, spinoso problema, che sta dietro a tutte queste ipotesi, talmente spinoso che nessuno ne parla. Lo Stato che entra nel capitale delle banche, o che si compra parte delle loro attività, deve ora convivere con lo Stato che detta le regole e non è facile cambiarsi rapidamente il vestito, la tentazione è quella di usare sempre lo stesso abito. Detto fuori di metafora, c’è bisogno di criteri chiari che definiscano bene i confini tra il proprietario e il regolatore, perché solo così si possono realizzare interventi, indubbiamente dolorosi per la collettività, che abbiano tempi certi, garanzie di trasparenza e di tutela del mercato e degli interessi pubblici. In queste condizioni di eccezionalità è un equilibrio difficile da raggiungere, ma necessario: usando un paradosso potremmo dire che gli stati oltre alle banche devono regolamentare bene se stessi. Ci riusciranno?

(1) “To Increase Transparency in Financial Stabilty Program”, sul sito www.ustreas.gov/press/realease

(1) Luigi Zingales, “Yes we can, Mr. Geithner”, sul sito www. vox.eu.org


* » Francesco Vella risponde ai commenti di "La discarica che si chiama bad bank" 13.02.2009

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