mercoledì 25 febbraio 2009

NAZIONALIZZAZIONE: C'E' DA FIDARSI? di Francesco Vella 24.02.2009


Per riavviare le politiche di prestito occorre fare pulizia dei titoli tossici. Ma le banche sono in grado di farlo da sole oppure lo Stato deve gestire direttamente gli istituti, oltre che comprare i titoli? Si tratta di scelte pragmatiche, non ideologiche. E in Italia? Prima di tutto bisogna vedere se c'è davvero necessità di nazionalizzazioni. Poi dare adeguate garanzie sulla salvaguardia dell'autonomia della gestione delle politiche di credito e sulla durata dell'intervento statale. La storia passata e recente del nostro sistema bancario invita alla diffidenza.

“Nazionalizzazione” è parola evocativa, impregnata di grandi significati ideologici e ricca di richiami storici: proprio per questo andrebbe utilizzata a ragion veduta, con grande cautela e soprattutto andrebbe tenuta fuori dalle tecniche dell’annuncio e successiva smentita da noi tanto di moda. In questo momento, i mercati hanno estremo bisogno che da governi e legislatori arrivino messaggi chiari, interventi rapidi e coerenti, misure efficaci. Da sei mesi a questa parte, tutti gli stati sono impegnati in una gigantesca opera di recupero della stabilità dei sistemi finanziari e di stimolo delle economie. Le banche sono l’anello più delicato della catena, se viene meno si corre il rischio di un precipizio senza fine: di qui l’affannarsi al loro capezzale con aiuti pubblici e salvataggi.

FARE PULIZIA

L’intervento diretto dello stato nel capitale, anche con quote maggioritarie, ha avuto sinora l’effetto di fronteggiare le situazioni più difficili delle banche a rischio di crollo. Ma, basta dare un’occhiata alle rassegne della stampa straniera, non ha inciso sensibilmente sul riavvio delle politiche di prestito. E anche dove si sono fatte vere e proprie nazionalizzazioni, con tutti i crismi di una legge che fa passare direttamente sotto il settore pubblico una banca, come è avvenuto con la Northern Rock, la strada non solo è in salita, ma anche lastricata di ostacoli e di azioni giudiziarie lanciate dagli azionisti espropriati: proprio in questi giorni si è conclusa la prima vertenza con la vittoria del governo di Sua Maestà. Si è così diffusa la consapevolezza, testimoniata dall’inversione a U del piano di salvataggio americano, che il ritorno alla normalità presuppone la pulizia dalle tossine ancora presenti nei bilanci delle banche. A prescindere dalle modalità tecniche su come far pulizia, il vero problema è se le banche siano adesso capaci di farlo da sole o se invece ci sia bisogno che lo stato oltre che compratore dei titoli tossici, diventi anche e contemporaneamente gestore delle banche stesse. Senza tener conto poi dell’ovvia e giusta preoccupazione di tutelare i taxpayers per tutti i soldi che hanno, loro malgrado, dovuto tirar fuori.

POCA IDEOLOGIA, MOLTO PRAGMATISMO

La pubblicizzazione delle banche, quindi, ha ben poco di ideologico e molto di pragmatico, e Gordon Brown, almeno a leggere le dichiarazioni ufficiali del governo inglese al Parlamento all’epoca del salvataggio della Northern Rock, se la sarebbe volentieri risparmiata. Eppure, sul suolo italico va presa con le molle. Innanzitutto perché bisogna prima vedere se ce n’è bisogno. Le Autorità di vigilanza hanno da poco emanato una comunicazione che invita banche, assicurazioni e società quotate a dare la massima trasparenza ai rischi finanziari e di liquidità. (1) Soltanto una puntuale verifica di eventuali criticità giustifica interventi di salvataggio. E l’acquisizione del capitale della banche dovrebbe rispettare alcuni requisiti fondamentali per essere veramente efficace e non riflettere invece ben altri interessi, del tutto estranei a quello alla stabilità del sistema. In primo luogo quando le Stato entra deve anche dire come e quando esce: l’intervento, cioè, deve essere temporaneo e su questo bisogna dare adeguate garanzie. Ad esempio come fa la legge inglese, individuando con precisione i presupposti che legittimano la nazionalizzazione e il periodo massimo entro la quale può essere fatta. (2)
Inoltre, affidandosi alle Autorità di vigilanza, si potrebbero definire le soglie patrimoniali che una volta recuperate non giustificano più la permanenza del capitale pubblico. E bisogna soprattutto dare solide garanzie, non bastano le promesse generiche, sulla salvaguardia dell’autonomia della gestione delle politiche di credito della banca, per togliere ogni sospetto che queste vengano piegate alle esigenze del nuovo proprietario.
Infine, se giustamente si chiede la massima trasparenza alle banche, bisogna con maggior forza chiedere la massima trasparenza e accountabilty allo stato. I contribuenti hanno diritto a vedere i loro soldi utilizzati per il bene collettivo e non per fare un favore agli azionisti delle banche, ma hanno anche diritto a controllare che i soldi non prendano altri sentieri e possibilmente ritornino in tempi brevi nelle casse dello stato.
Alla luce dell'antica storia del nostro sistema bancario che, non dimentichiamolo, per un certo periodo ha avuto il poco invidiabile primato di essere uno dei più “pubblici” del mondo, e di quella più recente dell’intervento statale, ogni riferimento all’Alitalia è puramente casuale, e alla luce, infine, delle continue dichiarazioni sui giornali di chi vorrebbe dare indiscriminatamente soldi a tutte le imprese a prescindere da rigorosi processi dei selezione, c’è da fidarsi?
Purtroppo, da noi il problema non è solo nelle banche, ma anche e soprattutto nello stato. E questo rende le cose terribilmente più difficili.


(1) Documento Banca d’Italia/Consob/Isvap n. 2 del 6 febbraio 2009.
(2)Banking (special Provisions) Act 2008 del 21 febbraio 2008.

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