mercoledì 15 aprile 2009

IL PIL SULLA SCALA MERCALLI di Francesco Daveri e Antonio Savini 14.04.2009

www.lavoce.info

I terremoti sono eventi eccezionali e imprevedibili che però purtroppo si ripetono in luoghi e tempi diversi. I dati derivanti dalle sfortunate esperienze di tanti paesi del mondo ci mostrano che le conseguenze di un terremoto come quello abruzzese sulla crescita di lungo periodo sono negative e di entità non marginale. La buona qualità delle istituzioni di un paese è però in grado di attenuarne in modo significativo i costi sociali.

Il terremoto nella provincia dell’Aquila così come lo tsunami nell’Asia Sud-Orientale di qualche anno fa sono eventi catastrofici con enormi conseguenze individuali, sociali ed economiche.

CATASTROFI E CRESCITA ECONOMICA

In alcuni casi, negli anni successivi a questi episodi, l’economia locale si riprende: le popolazioni trovano la forza di reagire e di ricostruire le loro comunità e le loro economie come prima e meglio di prima. E’ avvenuto, ad esempio, nel Friuli. Ma non è sempre così. In molte zone del mondo, le catastrofi hanno portato con sé una marcata difficoltà di ricostruire le attività economiche precedenti e, a volte, il declino economico.
Se si guarda oltre le conseguenze dirette delle catastrofi, purtroppo inevitabilmente negative e luttuose, l’economia ci suggerisce che gli effetti economici di più lungo periodo delle catastrofi possono essere molto diversi. Una catastrofe naturale potrà produrre effetti positivi sulla capacità di crescita di una località se la distruzione del capitale causato dalla catastrofe riesce a creare nuove opportunità di investire in nuove attività più moderne e avanzate rispetto a quelle preesistenti. Inoltre, almeno durante la ricostruzione, si verifica solitamente un eccezionale afflusso di risorse esterne – di capitale fisico, finanziario e umano – che se impiegate efficientemente possono accrescere le possibilità locali di investimento. Tenderanno invece a prevalere gli effetti negativi se le risorse finanziarie necessarie alla ricostruzione sono insufficienti a finanziare la realizzazione dei grandi progetti infrastrutturali richiesti per ricominciare a crescere oppure se gli aiuti predisposti non si aggiungono alle risorse di risparmio e di investimento già eventualmente presenti.

LA PAROLA AI DATI

Per capirne di più, nell’ambito di un progetto di ricerca in corso, abbiamo usato i dati del CRED (Center for the Research on the Epidemiology of Disasters) dell’Università di Lovanio (1). relativi alle catastrofi avvenute in novanta paesi in un lungo periodo di tempo e cioè durante i trenta anni compresi tra il 1970 e il 2000. Dai dati del CRED emerge che le catastrofi si sono più che raddoppiate nei trenta anni tra il 1970 e il 2000. Negli anni ’70 il totale dei disastri registrati fu pari a 75, per poi salire a 135 negli anni ottanta fino ai 180 disastri degli anni novanta.
Nel tempo i disastri di natura geologica si sono “solo” raddoppiati, mentre i disastri di altro tipo, soprattutto quelli dovuti ad eventi climatici estremi, si sono invece quasi triplicati. Una parte di questo incremento può essere il risultato del miglioramento delle tecniche di raccolta dei dati nel corso del tempo: negli anni ’70 il monitoraggio di eventi di questo tipo era certamente più imperfetto di quello di oggi. Per molti studiosi, però, il rapido aumento dei disastri climatici è una riprova della nefasta influenza della crescita demografica e delle attività economiche umane sulla rischiosità dell’ambiente in cui viviamo. Senza entrare nel dibattito sul cambiamento climatico, rimane il fatto che le catastrofi sono presumibilmente aumentate e in misura notevole di numero nell’arco di trenta anni.
Quando si parla di eventi catastrofici, però, almeno una cosa non è determinata dalla natura e dall’ambiente e cioè il loro impatto socio-economico. Tra il 1980 e il 2000 l’India ha subito quattordici terremoti con 32 mila vittime. Negli Stati Uniti, nello stesso periodo, di terremoti ce ne sono stati ben diciotto: ma i morti sono stati solo 143. E, infatti, l’analisi statistica indica che la percentuale delle persone coinvolte da una catastrofe non dipende solo dall’entità dei disastri e di altre variabili geografiche e naturali ma anche e soprattutto del reddito pro-capite e del livello di istruzione dei paesi in cui il disastro ha luogo. Le nostre stime mostrano che, in presenza di redditi pro-capite più elevati del 10%, il numero dei coinvolti per milione di abitanti è più basso del 7.5% (2). Probabilmente perché la densità della popolazione nelle zone urbane è tipicamente più alta in un paese povero che in un paese ricco (le bidonvilles fanno pensare a San Paolo o a Mumbai più che a Roma o Washington). Ma soprattutto perché in una località con un reddito pro-capite più elevato (la California o il Giappone) le case stanno in piedi meglio che in una zona con un reddito più basso (l’Abruzzo). Più in generale, come indicato da Matthew Kahn in un lavoro di qualche anno fa, (3) paesi caratterizzati da una migliore qualità delle istituzioni e del decision-making pubblico sono riusciti a ridurre sensibilmente il “conto sociale” delle catastrofi. Il che non sorprende: la presenza di istituzioni corrotte è ovviamente associata con il mancato rispetto dei vincoli e della legislazione edilizia, così come con una pessima qualità delle strutture e delle infrastrutture abitative.

L'IMPATTO SUL PIL

Una volta quantificata la relazione tra le variabili geografiche, naturali e sociali che descrivono una catastrofe e il suo impatto sociale, si può poi valutarne l’effetto sulla crescita economica. La nostra analisi indica che, al crescere del numero di persone coinvolte (per milione di abitanti), la crescita del Pil pro-capite del paese si riduce di 0,0003 punti percentuali all’anno. Può sembrare un numero piccolo ma non lo è. Se gli sfollati abruzzesi sono 30 mila (cioè circa 500 per milione di italiani), la crescita del Pil italiano potrebbe ridursi di circa 0.15 punti percentuali all’anno (gradualmente a calare verso zero). Su un orizzonte di dieci anni, -0,15 punti percentuali l’anno significa una riduzione di circa un punto e mezzo di Pil. (4).
I terremoti sono eventi eccezionali e imprevedibili che però purtroppo si ripetono in luoghi e tempi diversi e non periodici. E’ comunque possibile studiare le caratteristiche medie dei loro effetti economico-sociali per provare a descrivere gli scenari futuri. I dati derivanti dalle sfortunate esperienze di tanti paesi del mondo ci mostrano che le conseguenze di un terremoto come quello abruzzese sulla crescita economica potenziale di lungo periodo sono negative e di non piccola entità. La buona qualità delle istituzioni di un paese è però in grado di attenuarne in modo significativo i costi sociali.



(1) Il CRED (www.cred.be/emdat) definisce “disastro naturale” un evento o una situazione che non può essere gestita localmente ma richiede un intervento esterno, nazionale o internazionale, o che è riconosciuto come tale da un’istituzione internazionale, da un paese o dai media e che chiama in causa (1) almeno 10 morti, (2) 100 o più persone che hanno richiesto assistenza, (3a) la dichiarazione dello stato di emergenza oppure (3b) una richiesta di aiuti internazionali.
(2) L’equazione stimata da cui sono derivati i parametri riportati è la seguente: [log(1+COINVOLTI)] = 8.4 - 0.75 log(reddito procapite1970) -0.09 log(iscritti secondaria1970) + 1.01 log(numero disastri)+ variabili geografiche. R2=.66, numero osservazioni =90. COINVOLTI è il numero delle persone coinvolte nella catastrofe per milione di abitanti.
(3)Matthew E. Kahn, “The death toll from natural disasters: the role of income, geography and institutions”, The Review of Economics and Statistics, 271-284, 2005.
(4) L’equazione stimata per il tasso di crescita è la seguente: crescita(PILpc) = .051 -.007 log(PILPc,1970) + .003*log(iscritti secondaria1970) + .11 (Inv/Pil) - .001 (spesa pubblica/Pil) + .009 (grado di apertura) - .0003 log(1+COINVOLTI).

Foto: fonte ministero degli Interni

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sabato 28 febbraio 2009

Draghi: la disoccupazione aumenterà Tremonti: fatto tutto il possibile Il governatore: «Le ripercussioni sull'occupazione non si sono ancora pienamente manifestate»

       L'intervento di Draghi
MILANO - Botta e risposta. Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi è intervenuto sul tema dell'occupazione, lanciando l'allarme dal Forex di Milano: «Le ripercussioni sull'occupazione non si sono ancora pienamente manifestate; gli indicatori disponibili per i mesi più recenti prefigureranno un netto deterioramento. La caduta della domanda può colpire con particolare intensità le fasce deboli e meno protette, i lavoratori precari, i giovani, le famiglie a basso reddito».

LA REPLICA DI TREMONTI - Una tesi quella di Draghi che ha generato l'immediata reazione del ministro dell'Economia. «Il governo ha da tempo gestito nei termini che poteva e doveva questo fenomeno. Pochi giorni fa abbiamo siglato con le Regioni un importante accordo sugli ammortizzatori sociali. Noi siamo convinti di aver visto per tempo i fenomeni e di averli gestiti nel modo migliore» ha Giulio Tremonti, in conferenza stampa all'Aspen, ad una domanda relativa proprio all'allarme occupazione lanciato da Draghi.

BOND - Tanti però i temi affrontati da Draghi. Il primo è stato quello della solidità patrimoniale delle banche che vengono invitate ad usare i Tremonti-bond: «Se i fondi messi a disposizione dallo Stato sono di dimensione adeguata, se le condizioni che accompagnano gli interventi sono ragionevoli e concrete, tese a ottenere l'obiettivo, senza ingerenze amministrative nelle scelte imprenditoriali, non si esiti a utilizzarli».

Mario Draghi (Imagoeconomica)
Mario Draghi (Imagoeconomica)
RIFORME - La crisi può fornire al governo l'occasione per fare riforme strutturali, «che consentano al nostro paese di crescere di più e meglio in futuro» ha aggiunto il governatore della Banca d'Italia, presente a Milano al Forex. «I governi - ha detto Draghi - sono chiamati a una pronta, forte azione per sostenere l'economia. I margini per una politica anticiclica di bilancio vanno creati intervenendo con decisione sui meccanismi di fondo della spesa, assicurando in modo credibile la sostenibilità delle finanze pubbliche nel lungo e nel lunghissimo termine». Per il momento, ha sottolineato Draghi, la politica di bilancio attuata finora «con finalità anticicliche» vale circa mezzo punto percentuale di Pil.

SOSTENERE FASCE PIU' DEBOLI - Per uscire dalla recessione occorre ristabilire la fiducia nelle prospettive di crescita, sostenere il consumo delle fasce più deboli, rafforzare l'economia. È a questo che devono mirare gli interventi pubblici, attraverso le politiche economiche, secondo il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi. Gli interventi devono essere «globali, di ampia portata, il più possibile coordinati. L'azione - ha detto - deve essere incentrata sui tre pilastri delle politiche di bilancio, monetarie, per la stabilità del sistema finanziario. L'uscita dalla recessione sarà tanto più rapida quanto prima si ristabilirà la fiducia nelle prospettive di lavoro e di reddito, nel ritorno a una crescita equilibrata, nella solidità del sistema finanziario». Secondo Draghi, «la scelta delle forme che assumono gli interventi pubblici a sostegno della domanda non è meno importante della loro dimensione. Essi devono sostenere il consumo della fasce più deboli e rafforzare, nella componente d'investimento, la capacità di crescita dell'economia». Per quanto riguarda le imprese, Draghi nota come i crediti commerciali vantati nei confronti delle Amministrazioni pubbliche, connessi con dilazioni e ritardi nel pagamento di beni e servizi, sono «elevati» e valgono il 2,5% del Pil: «un'accelerazione dei pagamenti darebbe sostegno alle imprese senza appesantire strutturalmente i conti pubblici».

PROTEZIONISMO - «Il ricorso al protezionismo è una sirena potente durante la crisi. Nell'immediato può offrire qualche beneficio e alleviare vere situazioni di disagio sociale. Ma è certamente illusoria e distruttiva nel medio periodo,come senza dubbio lo fu negli anni trenta» ha aggiunto ancora il governatore di Bankitalia. Draghi ha sottolineato, riguardo alle politiche protezionistiche, che «una loro moltiplicazione potrebbe avere effetti deleteri, innescando un ciclo di ritorsioni commerciali».


21 febbraio 2009(ultima modifica: 22 febbraio 2009)


mercoledì 25 febbraio 2009

LA DISCARICA CHE SI CHIAMA BAD BANK di Francesco Vella 03.02.2009

La Voce.it - Articoli

Torna di moda l'idea originaria del piano Paulson: far acquistare dallo Stato i titoli tossici detenuti dalle banche. Senz'altro può aiutare il sistema bancario a ripulire ulteriormente i bilanci e a ritornare più rapidamente alla normalità. Ma la realtà dei titoli tossici è molto complessa ed è evidente il pericolo di attribuire al pubblico compratore una enorme discrezionalità, con effetti distorsivi sui meccanismi di trasparenza dei salvataggi. Servono criteri chiari per definire bene i confini tra Stato proprietario e Stato regolatore.

Anche le crisi hanno le loro mode. Quando l’allora ministro del Tesoro americano Paulson presentò il piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari l’idea era quella di comprare dalle banche i titoli “tossici” in modo che queste, liberate dalla zavorra, potessero ricominciare a fare credito o almeno smetterla di guardarsi l’un l’altra con enorme diffidenza e riportare a una situazione di normalità il mercato interbancario. Il piano, al centro di feroci polemiche, prese, però, una strada completamente diversa adattandosi all’ispirazione dei cugini inglesi, che invece avevano scelto di comprarsi non i titoli, ma direttamente le azioni delle banche. E in effetti la moda “Gordon Brown” ha avuto indubbio successo, cambiando completamente gli assetti del sistema bancario, ora saldamente ancorato alla mano pubblica.
Probabilmente se Paulson fosse ancora ministro potrebbe togliersi più di un sassolino dalle scarpe perché la sua idea, allora tanto criticata e bistrattata, è improvvisamente tornata al centro dell’attenzione con il nuovo marchio bad bank.

SALVATAGGI E PRESTITI

Il ritorno di fiamma si deve anche al fatto che le speranze riposte nelle massicce iniezioni di capitale fresco nelle banche sono andate in parte deluse, ma più che speranze erano illusioni. La ricapitalizzatone pubblica non può mettere immediatamente il turbo ai prestiti alle imprese, ma serve alle banche per ritrovare il loro equilibrio e tornare al loro antico mestiere, il cui abbandono non a caso è all’origine della crisi dei subprime e di tutte le nostre attuali sofferenze: valutare il merito di credito. Ed è inevitabile che, in un periodo di grande fragilità dei mercati e degli intermediari, i criteri di selezione dei prenditori siano più severi. Questa è la cruda verità che i politici fanno fatica a trasmettere ai contribuenti alquanto arrabbiati per il fiume di denaro pubblico destinato alle banche. Per salvare il sistema, si devono certo introdurre adeguati strumenti di governance, vincoli prudenziali e severe regole a presidio della correttezza dell’attività creditizia, ma non si può pretendere di imporre una sorta di “obbligo al credito”, altrimenti si rischia, fra qualche anno, di ritrovarci tutti quanti a dire che la lezione della crisi del 2008 non è servita a niente.
La bad bank sicuramente può aiutare le banche a ripulire ulteriormente i bilanci e quindi a ritrovare più rapidamente la strada per un ritorno alla normalità, ma anche in questo caso occorre tenere i piedi per terra ed evitare facili e illusori messaggi nei confronti di chi (ancora i poveri taxpayers) deve tirare fuori i soldi.

I PERICOLI DELLA BAD BANK

Già la prima versione del piano Paulson aveva incontrato molti ostacoli. Non è ben chiaro cosa la bad bank debba comprare, la realtà dei titoli tossici è infatti molto complessa e non facilmente definibile, e soprattutto non è affatto chiaro a quanto debba comprare: la valutazione dei titoli tossici è un autentico puzzle che finora anche i più fervidi sostenitori di questa ipotesi non sono riusciti a comporre. In questo regime di incertezza è evidente il pericolo di attribuire al pubblico compratore una enorme discrezionalità con effetti distorsivi sui necessari meccanismi di trasparenza dei salvataggi, e non è un caso che le prime verifiche parlamentari sull’esecuzione del piano statunitense Tarp abbiano messo il dito nella piaga dicendo a chiare lettere che il Department of Treasury non può utilizzare i soldi dei contribuenti a suo piacimento. Tutti adesso seguono con ansia le scelte del nuovo ministro Geithnerper il rafforzamento del piano, pochi si sono accorti del fatto che il suo primo impegno è garantire quella trasparenza e accountability che ancora manca e che sta suscitando non pochi e giustificati malumori. (1)
C’è poi l’obiezione “etica” di fondo, ripresa da un recente intervento di Luigi Zingales: perché il già bastonato taxpayer deve nuovamente metter mano al portafoglio facendo un favore agli azionisti delle banche? (2) Ed è obiezione sensata, anche perché la collettività non ha niente da guadagnare da una gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico, che potrà essere certo recuperato, ma non si sa come e in quali tempi.
Zingales propone che siano le banche stesse a farsi la loro bad bank, ma anche in questo caso sarebbe comunque necessaria una attenta disciplina su cosa si possa mettere nella spazzatura e con quali metodi. Inoltre, una simile operazione, visto che i titoli tossici sono ormai dappertutto, per essere efficace dovrebbe coinvolgere tutti i mercati, e quindi presupporre un coordinamento internazionale difficilmente attuabile in tempi brevi.

I VESTITI DELLO STATO

Insomma, la bad bank è un terreno sul quale avventurarsi con attenzione e prudenza e comunque poco adatto ai messaggi a effetto tanto cari, in questo periodo, ai politici. Piuttosto, la politica dovrebbe occuparsi di risolvere il vero, spinoso problema, che sta dietro a tutte queste ipotesi, talmente spinoso che nessuno ne parla. Lo Stato che entra nel capitale delle banche, o che si compra parte delle loro attività, deve ora convivere con lo Stato che detta le regole e non è facile cambiarsi rapidamente il vestito, la tentazione è quella di usare sempre lo stesso abito. Detto fuori di metafora, c’è bisogno di criteri chiari che definiscano bene i confini tra il proprietario e il regolatore, perché solo così si possono realizzare interventi, indubbiamente dolorosi per la collettività, che abbiano tempi certi, garanzie di trasparenza e di tutela del mercato e degli interessi pubblici. In queste condizioni di eccezionalità è un equilibrio difficile da raggiungere, ma necessario: usando un paradosso potremmo dire che gli stati oltre alle banche devono regolamentare bene se stessi. Ci riusciranno?

(1) “To Increase Transparency in Financial Stabilty Program”, sul sito www.ustreas.gov/press/realease

(1) Luigi Zingales, “Yes we can, Mr. Geithner”, sul sito www. vox.eu.org


* » Francesco Vella risponde ai commenti di "La discarica che si chiama bad bank" 13.02.2009

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NAZIONALIZZAZIONE: C'E' DA FIDARSI? di Francesco Vella 24.02.2009


Per riavviare le politiche di prestito occorre fare pulizia dei titoli tossici. Ma le banche sono in grado di farlo da sole oppure lo Stato deve gestire direttamente gli istituti, oltre che comprare i titoli? Si tratta di scelte pragmatiche, non ideologiche. E in Italia? Prima di tutto bisogna vedere se c'è davvero necessità di nazionalizzazioni. Poi dare adeguate garanzie sulla salvaguardia dell'autonomia della gestione delle politiche di credito e sulla durata dell'intervento statale. La storia passata e recente del nostro sistema bancario invita alla diffidenza.

“Nazionalizzazione” è parola evocativa, impregnata di grandi significati ideologici e ricca di richiami storici: proprio per questo andrebbe utilizzata a ragion veduta, con grande cautela e soprattutto andrebbe tenuta fuori dalle tecniche dell’annuncio e successiva smentita da noi tanto di moda. In questo momento, i mercati hanno estremo bisogno che da governi e legislatori arrivino messaggi chiari, interventi rapidi e coerenti, misure efficaci. Da sei mesi a questa parte, tutti gli stati sono impegnati in una gigantesca opera di recupero della stabilità dei sistemi finanziari e di stimolo delle economie. Le banche sono l’anello più delicato della catena, se viene meno si corre il rischio di un precipizio senza fine: di qui l’affannarsi al loro capezzale con aiuti pubblici e salvataggi.

FARE PULIZIA

L’intervento diretto dello stato nel capitale, anche con quote maggioritarie, ha avuto sinora l’effetto di fronteggiare le situazioni più difficili delle banche a rischio di crollo. Ma, basta dare un’occhiata alle rassegne della stampa straniera, non ha inciso sensibilmente sul riavvio delle politiche di prestito. E anche dove si sono fatte vere e proprie nazionalizzazioni, con tutti i crismi di una legge che fa passare direttamente sotto il settore pubblico una banca, come è avvenuto con la Northern Rock, la strada non solo è in salita, ma anche lastricata di ostacoli e di azioni giudiziarie lanciate dagli azionisti espropriati: proprio in questi giorni si è conclusa la prima vertenza con la vittoria del governo di Sua Maestà. Si è così diffusa la consapevolezza, testimoniata dall’inversione a U del piano di salvataggio americano, che il ritorno alla normalità presuppone la pulizia dalle tossine ancora presenti nei bilanci delle banche. A prescindere dalle modalità tecniche su come far pulizia, il vero problema è se le banche siano adesso capaci di farlo da sole o se invece ci sia bisogno che lo stato oltre che compratore dei titoli tossici, diventi anche e contemporaneamente gestore delle banche stesse. Senza tener conto poi dell’ovvia e giusta preoccupazione di tutelare i taxpayers per tutti i soldi che hanno, loro malgrado, dovuto tirar fuori.

POCA IDEOLOGIA, MOLTO PRAGMATISMO

La pubblicizzazione delle banche, quindi, ha ben poco di ideologico e molto di pragmatico, e Gordon Brown, almeno a leggere le dichiarazioni ufficiali del governo inglese al Parlamento all’epoca del salvataggio della Northern Rock, se la sarebbe volentieri risparmiata. Eppure, sul suolo italico va presa con le molle. Innanzitutto perché bisogna prima vedere se ce n’è bisogno. Le Autorità di vigilanza hanno da poco emanato una comunicazione che invita banche, assicurazioni e società quotate a dare la massima trasparenza ai rischi finanziari e di liquidità. (1) Soltanto una puntuale verifica di eventuali criticità giustifica interventi di salvataggio. E l’acquisizione del capitale della banche dovrebbe rispettare alcuni requisiti fondamentali per essere veramente efficace e non riflettere invece ben altri interessi, del tutto estranei a quello alla stabilità del sistema. In primo luogo quando le Stato entra deve anche dire come e quando esce: l’intervento, cioè, deve essere temporaneo e su questo bisogna dare adeguate garanzie. Ad esempio come fa la legge inglese, individuando con precisione i presupposti che legittimano la nazionalizzazione e il periodo massimo entro la quale può essere fatta. (2)
Inoltre, affidandosi alle Autorità di vigilanza, si potrebbero definire le soglie patrimoniali che una volta recuperate non giustificano più la permanenza del capitale pubblico. E bisogna soprattutto dare solide garanzie, non bastano le promesse generiche, sulla salvaguardia dell’autonomia della gestione delle politiche di credito della banca, per togliere ogni sospetto che queste vengano piegate alle esigenze del nuovo proprietario.
Infine, se giustamente si chiede la massima trasparenza alle banche, bisogna con maggior forza chiedere la massima trasparenza e accountabilty allo stato. I contribuenti hanno diritto a vedere i loro soldi utilizzati per il bene collettivo e non per fare un favore agli azionisti delle banche, ma hanno anche diritto a controllare che i soldi non prendano altri sentieri e possibilmente ritornino in tempi brevi nelle casse dello stato.
Alla luce dell'antica storia del nostro sistema bancario che, non dimentichiamolo, per un certo periodo ha avuto il poco invidiabile primato di essere uno dei più “pubblici” del mondo, e di quella più recente dell’intervento statale, ogni riferimento all’Alitalia è puramente casuale, e alla luce, infine, delle continue dichiarazioni sui giornali di chi vorrebbe dare indiscriminatamente soldi a tutte le imprese a prescindere da rigorosi processi dei selezione, c’è da fidarsi?
Purtroppo, da noi il problema non è solo nelle banche, ma anche e soprattutto nello stato. E questo rende le cose terribilmente più difficili.


(1) Documento Banca d’Italia/Consob/Isvap n. 2 del 6 febbraio 2009.
(2)Banking (special Provisions) Act 2008 del 21 febbraio 2008.

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COME SALVARE LE BANCHE * di Ricardo Caballero 24.02.2009


La soluzione della crisi non passa attraverso la nazionalizzazione delle banche. Anzi, molto probabilmente sarebbe una scelta controproducente. Cosa fare allora? Lo Stato si impegni ad acquistare fino al doppio del numero di azioni oggi in circolazione al doppio del loro recente prezzo medio, ma fra cinque anni. Un improbabile intervento futuro con un impatto immediato. Si invertirebbero le dinamiche negative dei mercati azionari e le banche potrebbero tornare a raccogliere capitale privato. Senza costi per il contribuente.

Ecco una proposta “semplice”. Lo Stato si impegna ad acquistare fino al doppio del numero di azioni oggi in circolazione al doppio del loro recente prezzo medio, ma fra cinque anni. (Naturalmente, i numeri che ho citato sono solo indicativi).
Il provvedimento prefigura interventi futuri (e improbabili), ma il suo impatto immediato sarebbe enorme. In particolare, invertirebbe le dinamiche negative dei mercati azionari e permetterebbe alle banche di raccogliere capitale privato.
L'effetto più diretto sarebbe un incremento superiore al 100 per cento del prezzo delle azioni delle banche, perché l'impegno preso fissa un limite minimo sui prezzi tra cinque anni, ma il potenziale di rialzo è enorme una volta superato l'ostacolo della crisi. Acquistare azioni di queste banche sarebbe come acquistare buoni del Tesoro più una “call option” al rialzo. E il rialzo si diffonderebbe immediatamente anche ai corsi delle azioni delle attività non finanziarie. I consumatori, e in particolare i pensionati, vedrebbero ricostituita almeno in parte la loro ricchezza, le compagnie di assicurazione migliorare i loro bilanci, mentre verrebbero spazzati via i venditori allo scoperto e gli speculatori (come è stato fatto a Hong Kong nel 1997): avremmo messo le fondamenta per un circolo virtuoso.

SENZA COSTI PER IL CONTRIBUENTE

Il secondo effetto, che rafforza il primo, sarebbe la stabilizzazione del settore finanziario perché le banche ora disporrebbero delle condizioni necessarie per raccogliere capitale privato. Finora le banche non hanno cercato di farlo perché ai prezzi attuali avrebbe un effetto diluizione eccessivo. E anche i potenziali investitori non hanno interesse a investire capitali perché è grande il timore di ulteriori diluizioni, attraverso gli interventi statali o, ancor peggio, direttamente attraverso le nazionalizzazioni. Un impegno a sostenere i corsi azionari in futuro, invece della nazionalizzazione a breve termine, invertirebbe queste dinamiche negative e porterebbe a una rapida ricapitalizzazione del settore bancario.
E al contribuente quanto costerebbe tutto ciò? Probabilmente, niente. È molto improbabile che la crisi duri cinque anni, in particolare in presenza di una risposta energica della politica. Ed è probabile che cambi il valore di mercato delle azioni della maggior parte delle banche. Ho proposto di “raddoppiare i prezzi recenti” per ridurre l'effetto di shock, ma forse sarebbe meglio “quadruplicarli” e allungare il periodo a dieci anni.

DUE OBIETTIVI CHE SI POSSONO SEPARARE

I due obiettivi della proposta si possono raggiungere anche separatamente. Per esempio, se non piace l'idea di sollevare la borsa, ma interessa quella della ricapitalizzazione privata, si può modificare il meccanismo per garantire solo le nuove emissioni di azioni. Ciò permetterebbe alle banche di raccogliere capitale a prezzi ragionevoli e non a quelli odierni, di saldo, determinati dal panico. Non offrirebbe però garanzie agli attuali azionisti e quindi non produrrebbe alcun effetto boom sul mercato azionario.
Per esempio, supponiamo che dopo aver studiato i libri contabili di una banca, il governo decida che se si valutano le attività in modo corretto, invece che agli attuali prezzi di mercato, le azioni valgono cinque volte il valore di mercato di oggi, che è un dollaro. Il governo decide anche che per resistere a una catastrofe aggregata la banca ha bisogno di una ricapitalizzazione di 5 miliardi di dollari. Garantirà allora il nuovo capitale con opzioni put sufficienti a far sì che si voglia acquistare un miliardo di azioni a 5 dollari ciascuna. Ciò diluisce gli attuali azionisti, ma solo perché sono costretti a detenere una riserva di capitale per garantire l'elasticità di sistema contro la catastrofe, non per l'emissione forzata di azioni a prezzi determinati dal panico.
È possibile anche fare il contrario: sostenere semplicemente il mercato azionario, come ha fatto con successo Hong Kong nel 1997, senza però facilitare direttamente la ricapitalizzazione. Anche in questo caso, mi sembra necessario concentrarsi sulle principali istituzioni finanziarie e non sui mercati nel loro insieme. Per (almeno) tre ragioni.
Primo, le vendite a prezzo di realizzo sono concentrate su queste istituzioni da quando sono iniziate le ipotesi di nazionalizzazione e i problemi di liquidità hanno distrutto il valore delle azioni.
Secondo, è impossibile valutare i bilanci di un gran numero di società con la necessaria velocità, è meglio allora concentrarsi su quelle che hanno l'effetto sistemico più importante e procedere rapidamente.
Terzo, il debito pubblico va tenuto sotto controllo: concentrarsi sulle maggiori istituzioni finanziarie consentirà probabilmente di mantenere l'ipotetica passività pubblica sotto i 500 miliardi di dollari.
In ogni caso, l'ammontare complessivo dipende da quanto capitale è necessario a una banca per sopravvivere alla peggior catastrofe e da quale sarà il valore atteso delle sue azioni, una volta ricapitalizzata adeguatamente la banca.


* Il testo in lingua originale è pubblicato su Vox.
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giovedì 19 febbraio 2009

COSI' IL DEFICIT SI AVVICINA AL 4,5 PER CENTO di Francesco Daveri 17.02.2009

La Voce - Articoli
COSI' IL DEFICIT SI AVVICINA AL 4,5 PER CENTO
di Francesco Daveri 17.02.2009

La crescita economica è inferiore alle attese già pessimistiche: nel quarto trimestre il calo del Pil è stato dell'1,8 per cento invece dell'1,6 previsto. Il dato provvisorio per il 2008 arriva così al -0,9 per cento. Peggiorano di conseguenza le prospettive della finanza pubblica e del deficit per il 2009. Ecco spiegata la prudenza di Tremonti dei mesi scorsi. Purtroppo, proprio ora che ce n'è bisogno, è stretto lo spazio di manovra per politiche fiscali espansive.

La crescita economica del quarto trimestre per l’economia italiana, come di quella europea e del resto del mondo, ha rispecchiato in pieno le aspettative pessimistiche della vigilia, con qualche decimo di punto percentuale in più. Ci si aspettava un Pil in calo dell’1,6 per cento rispetto al trimestre precedente, come testimoniano ad esempio le previsioni del Centro studi Confindustria.
Il calo è stato invece dell’1,8 per cento e addirittura del 2,6 per cento rispetto al dicembre 2007 il che porta il dato annuale provvisorio per la crescita media del Pil 2008 al -0,9 per cento, anziché al -0,6 per cento atteso dal governo. (1) Questo dato si confronta con un +0,7 per cento per l’area euro e +0,9 per cento per l’Unione Europea a 27. Insomma, i dati dicono che, per il 2008, il solito “meno uno per cento” di crescita degli ultimi quindici anni rispetto agli altri paesi europei è diventato un “meno 1,5 per cento” abbondante.
I numeri Eurostat dicono anche che non è generalmente vero che l’economia italiana se la stia passando meno peggio degli altri durante la crisi. Il dato congiunturale del quarto trimestre rispetto al terzo trimestre, la misura di come stiamo andando dopo il fallimento di Lehman Brothers, indica che il Pil è sceso dell’1,8 per cento, contro -2,1 per cento per la Germania, -1,5 per cento per il Regno Unito, -1,2 per cento per la Francia e -1 per cento per la Spagna. In Europa vanno male tutti, ma, per la precisione, solo i tedeschi e i portoghesi hanno registrato risultati peggiori dei nostri nel quarto trimestre 2008.

IMPLICAZIONI PER LA FINANZA PUBBLICA

I dati sulla crescita del Pil nel quarto trimestre hanno qualche implicazione di finanza pubblica. Il Programma di stabilità dell’Italia presentato il 10 febbraio 2009 dal governo conteneva una previsione del rapporto del deficit sul Pil pari al 3,7 per cento. Tale previsione incorpora una riduzione del Pil in termini reali del 2 per cento, e del Pil a prezzi correnti dello 0,6 per cento, per il 2009. Il dato peggiore del previsto per il quarto trimestre 2008 implica però un effetto di trascinamento per la crescita 2009 di qualche decimo di punto percentuale. Opportunamente (vedi tabella 7, p. 20) il governo riportava, infatti, una forchetta di previsioni per il rapporto deficit-Pil oscillante tra 3,5 e 4,1 per cento, a seconda del verificarsi di uno scenario ottimistico di crescita economica, “solo” -1,5% di crescita del Pil, oppure di uno pessimistico, con diminuzione del 2,5 per cento. Purtroppo, i dati di chiusura del 2008 aumentano le probabilità che a verificarsi sia lo scenario pessimistico, almeno in misura parziale.
Leggendo la nota informativa 2009-2011 allegata al Patto di stabilità, si può ottenere qualche altra informazione sulla plausibilità dell’obiettivo per il deficit previsto dal governo. Dalla tavola 3 (“Conto della Pa a legislazione vigente), viene infatti fuori qualche numero che richiederebbe un maggiore chiarimento. Con un Pil a prezzi correnti previsto in diminuzione dello 0,6 per cento, la voce “entrate da contributi sociali” (contributi effettivi) viene data in crescita del 2,3 per cento tra il 2008 e il 2009, da 216 a 221 miliardi circa, senza commenti nel testo. In una piccola parte rispecchia l’aumento di un punto percentuale dei contributi sociali dei lavoratori co.co.pro stabilito nella Finanziaria 2007. Ma i co.co.pro sono una frazione molto minoritaria dei lavoratori che pagano i contributi. Inoltre, almeno alcuni di questi lavoratori rischiano di perdere il lavoro a causa della recessione. Forse il governo si aspetta un’improbabile tenuta straordinaria del mercato del lavoro: fino a novembre aveva tenuto abbastanza bene, ma la crisi non era ancora entrata nel vivo. Oppure è in fase di attuazione un’intensificazione degli sforzi di recupero di base contributiva durante la crisi. Deve essere così, altrimenti il dato sulle entrate 2009 è ottimistico di almeno 5 miliardi, pari a circa 0,3 per cento del Pil.

DUE COMMENTI

Le considerazioni precedenti suggeriscono due commenti.
Il primo è che, sulla base delle informazioni esistenti e della legislazione vigente, il rapporto deficit-Pil 2009 rischia di essere più vicino al 4,5 per cento che al 3,7 per cento. Il che fornisce una spiegazione plausibile della cautela dei mesi scorsi del ministro Tremonti nei confronti di ogni ipotesi di sforamento dei saldi di finanza pubblica. Non era tanto il debito esistente che lo preoccupava, quanto il deficit previsto per il 2009. Avrebbe potuto spiegarlo. Poteva tra l’altro anche dire come mai già nel 2008 si era ridotta di un punto percentuale, da 14,7 per cento nel 2007 a 13,8 per cento, la quota delle entrate da imposte indirette sul Pil, il che ha certamente ridotto l’ammontare delle risorse disponibili per una manovra di sostegno ai redditi e ai consumi. E, su questa strada, già nel 2008, soprattutto avendo previsto la crisi in anticipo, avrebbe potuto risparmiare qualche miliardo di euro in più se non avesse sprecato tanti soldi nel completamento dell’eliminazione dell’Ici, nel salvataggio di Alitalia e nella detassazione degli straordinari.
Secondo, gli ultimi dati di finanza pubblica suggeriscono che anche il Pd dovrebbe ricalibrare il suo piano anticrisi, presentato nei giorni scorsi. Prevede 16 miliardi di maggiori spese, ma indica una copertura, un po’ avventurosa, di soli 8 miliardi, derivanti dalla maggior crescita (minor decrescita) del Pil (per 5 miliardi) e dal recupero dell’evasione fiscale (3 miliardi), cioè in definitiva da un inasprimento del trattamento fiscale delle partite Iva, molte delle quali stanno già scomparendo a causa della recessione. Con previsioni sul Pil come quelle attuali, è urgente trovare le risorse per sostenere i consumi e i redditi dei meno abbienti. Ma con previsioni sul deficit come quelle attuali lo spazio per politiche fiscali espansive è molto risicato.



(1) Quella diffusa dagli uffici statistici nazionali è solo la stima preliminare del Pil, per la quale sono utilizzati un insieme di indicatori più piccolo di quelli impiegati per la stima definitiva. La probabilità di errore statistico è dunque probabilmente più elevata del solito, specialmente in un periodo di elevata incertezza come quello attuale.


venerdì 12 dicembre 2008

Salvataggio di GM, Ford, Chrisler? O è solo un modo di rinviare il problema? venerdì 12 dicembre 2008 a 9.36 Pubblicato da Mark75


Come forse avrete già letto, gli USA stanno preparando un piano di salvataggio per le tre grandi industrie dell'auto oggi in crisi, che (semplificando) prevede "prestiti agevolati" per 14 miliardi di Euro. Abbiamo già detto come la crisi di queste aziende non sia dovuta solo a fattori contingenti, ma ci sono alcune veloci riflessioni che meritano di essere fatte.

* Il "sospetto" dei critici è che questo piano (consiederato "debole") abbia come obiettivo quello di rinviare la crisi del settore, più che di risolverla. In altre parole, rifilare la patata bollente ad Obama, quando sarà in carica.
* Il tema dell'indotto è indubbiamente importante, ma 1) dovrebbe essere anche fatta una politica per riqualificare e spingere verso la diversificazione i subfornitori (riducendone così la dipendenza dalle specifiche aziende), e 2) la dimensione dell'indotto va valutata correttamente: se è vero che GM ha contato anche i tassisti all'interno dell''indotto del settore, si tratterebbe di numeri "gonfiati" per facilitare l'ottenimento di aiuti.
* Un buon esempio che arriva da queste aziende è l'azzeramento del compenso dei manager ed il blocco dei dividendi. Si tratta di un atteggiamento che ci sembra "dovuto" da parte di chi vuole ricevere dallo Stato un aiuto per sopravvivere. Perché le banche in crisi non devono fare altrettanto?


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mercoledì 10 dicembre 2008

Gli USA rischiano grosso a causa del liberismo?

       mercoledì 10 dicembre 2008 a 8.17 Pubblicato da Mark75

Ora che la crisi economica sta iniziando a comportare pesanti conseguenze per l'occupazione in USA, sotto accusa (dall'estero) finisce la politica economica estremamente "liberista" che da sempre caratterizza gli Stati Uniti, dove i lavoratori hanno ben poche garanzie e dove i servizi sociali -- dalla sanità, alla scuola, alla pensione -- si pagano, ed anche cari.

Va però chiarito il rapporto tra questo liberismo e la crisi economica, rapporto che a mio parere è a volte frainteso. Un conto è parlare del problema della mancanza di ammortizzatori sociali, un altro è dire che se in USA vi fossero maggiori tutele dei lavoratori la crisi non si sarebbe trasmessa dalla finanza all'"economia reale".

Premesso che personalmente non condivido del tutto l'idea che la crisi sia partita dalla finanza e abbia "infettato" main street, dato che è nata da problematiche molto concrete dell'economia "reale", c'è un punto che va tenuto presente.

Una diversa suddivisione dei costi della crisi non annulla la crisi, ma ne ripartisce diversamente i costi, almeno in prima approssimazione. I debiti non spariscono magicamente solo perché a pagarli è lo Stato: vuol dire solo che finiscono sulle spalle di tutti, a volte con ricarichi dovute ad inefficienze che nel passaggio possono venire introdotte.

Questo non toglie, logicamente, che una suddivisione degli effetti della crisi possa essere più equa rispetto all'altra, anzi si può tranquillamente dire che gli USA sono probabilmente l'ultimo paese che va preso a modello per i temi di politiche sociali e simili.


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giovedì 27 novembre 2008

Citigroup: i dettagli del piano di salvataggio del governo USA lunedì 24 novembre 2008

Pubblicato da Mark75

Il governo USA ha predisposto un piano di salvataggio per Citigroup, che sta affrontando una pesante crisi di fiducia da parte degli investitori. Il piano è basato sul fatto che il governo garantirà i "titoli tossici" nei conti di Citigroup, ma non li acquisterà né ci sarà alcuna forma di nazionalizzazione della banca. Le azioni di Citigroup hanno fatto un balzo record: +57,82%, passando da 3,77$ della chiusura di venerdì a 5,95$ di lunedì sera.

Citigroup ed il governo hanno identificato oltre 300 miliardi di dollari di asset "a rischio", e hanno determinato come eventuali (probabili) perdite saranno assorbite:

* i primi 29 miliardi di "eventuali perdite" saranno totalmente a carico di Citigroup. Oltre, le perdite saranno divise tra la banca ed il governo, con quest'ultimo che se ne accollerà il 90%.
* il Dipartimento del Tesoro coprirà le perdite di Citigroup fino ad un massimo di 5 miliardi di dollari, utilizzando il "fondo di salvataggio" predisposto a supporto delle banche.
* oltre questa cifra, interverrà la FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation), l'equivalente americano del Fondo Interbancario di Tutela del Depositi, che assorbirà fino ad un massimo di 10 miliardi di perdite.
* qualora le perdite fossero ancora superiori, queste saranno carico della Federal Reserve, senza limiti

Un piano presentato come innovativo e indice di un nuovo approccio, ma in realtà lascia aperti alcuni dubbi -- per quanto vada anche detto che non era facile trovare in tempi brevi una soluzione ottima alla crisi.

* Il primo elemento è che la scelta di garantire i titoli anziché acquistarli può essere indice di quanto temuto da molti: Citigroup è troppo grossa anche per il governo USA per un salvataggio, e quella della garanzia può essere una strategia per non sostenere il costo del salvataggio immediatamente, ma "diluirlo" mano a mano che i default si concretizzano.
* Il top management rimarrà invariato, quando era dato quasi per scontato un cambio ai vertici, anche considerato che le problematiche di Citigroup sono almeno in parte di natura organizzativa, e non puramente "congiunturali". Non si capisce perché un manager che conduce l'azienda sull'orlo del collasso debba essere mantenuto al suo posto.
* E' stato posto un limite massimo nell'erogazione dei dividendi, con un tetto massimo di 1 cent ad azione. Anche qui, i dividendi andrebbero invece bloccati del tutto, e destinati invece a riserve: la critica che molti sostengono infatti è che non è corretto che i soldi dei contribuenti vadano a trasformarsi in utili per gli azionisti.
* Oltre alla garanzia sui 300 miliardi di "titoli a rischio" di Citigroup, il Tesoro investirà 20 miliardi di dollari dal TARP (Troubled Asset Relief Program) per ricapitalizzare la banca, in cambio di azioni privilegiate. Un'operazione che però è criticata nelle modalità, dato che sembra che i warrant avranno un prezzo d'esercizio di oltre 10 dollari, contro un valore di mercato attuale di meno di 6$, quindi un valore reale -- che può essere visto come il "guadagno" dei contribuenti, a compensazione dell'intervento di salvataggio -- facilmente vicino allo zero.

Resta in ogni caso il fatto che l'intervento su Citigroup probabilmente non va interpretato come una nuova linea d'azione, ma piuttosto di un intervento su misura, in considerazione delle particoalrità della situazione.



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